Un inizio scontato

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L’inizio è scontato.

 

CIOCCOLATO.

 

Tanto, nero, amaro. Un po’ come il dolore, solamente,  molto più buono.

 

In tutte le forme, lecite e illecite: caldo in tazza con una stecca di cannella, in crema dentro una brioche calda, col peperoncino nel gelato più calorico che si ricordi.

 

Ma la fase del  cioccolato ha vita più breve di quanto credessi: forse in preda a sensi di colpa indotti da canoni estetici che saranno anche irreali ma sono onnipresenti, mi lancio anima e corpo nella fase Beauty Farm.

 

In questo stadio divento la pasionaria dell’idratante, la paladina dei nutrienti, e le profumerie mi attendono come si aspetta solo Babbo Natale.

 

La verità è che nonostante tutto sono ancora vulnerabile, e le commesse sembrano subdole quel tanto che basta per fiutare il mio stato di fragilità emotiva: mi si avventano addosso sorridenti e, amabili come pirañha,  riesono a rifilarmi tutto quello di cui non bisogno.
La mia forza morale mi ha temporaneamente abbandonato, e il risulato è del tutto scontato: torno a casa carica di creme dai nomi improbabili che contengono gli ingredienti più inverosimili.

 

Il bagno diventa il mio posto preferito, e si trasforma in scrittoio, in sala di lettura, in pensatoio.

 

Questo è il periodo in cui inauguro la rigenerante abitudine dei bagni a tema (in pratica, per ogni paturnia esiste un rimedio).

 

 

 

Piccolo vademecum della bagneuse:

 

 

 

Dancefloor: luce al neon, l’ultimo cd di Madonna in sottofondo,  una bella vasca d’acqua fresca frizzante di bicarbonato

 

Woodstock: sigaretta (anche arricchita), musicassetta (il suono imperfetto è parte integrante del programma) dei DOORS, incenso (abitudine presa al liceo per mascherare la sigaretta), acqua calda con qualche untuosissimo olio essenziale, possibilmente speziato

 

 

 

Hollywood: accappatoi bianchissimi di spugna, vasca idromassaggio necessariamente rotonda, acqua fresca con whirpool a gogo, una coppa di fragole con ghiaccio, un flute di champagne…e qualcuno con cui brindare!

 

 

 

La Vie en Rose: l’omonimo cd di Eith Piaf, un mare di candele possibilmente scure, acqua calda profumata di rosa, vapore vapore e ancora vapore

 

Sto mollo delle ore in acqua bollente, e cerco le figure nei cumuli di shiuma come si fa con le nuvole d’estate, sdraiati nel prato la domenica pomeriggio.

 

Mi godo il tepore, sonnecchio, mi invento delle storie,  penso a quello che mi succede.

 

Ma mi  pongo da subito regole ben chiare.

 

Posso pensare a quello che succede, a quello che succederà in futuro, ma MAI a quello che è successo in passato.

 

Naturalmente non ignoro che le regole vengono create per essere trasgredite, ed ogni tanto indulgo nel perverso piacere di indugiare nei ricordi più conforevoli, quelli che ti avvolgono rassicuranti come un vecchio maglione di cachemire che proprio non riesci buttar via.

 

Ma sono momenti di temporanea distrazione.

 

Tutte le mie energie se ne vanno nell’impresa di star bene.

 

Mi concedo tutto quello che può darmi piacere, e metto la massima concetrazione nell’ assaporare ogni cosa.

 

Faccio anche cose un po’ folli, ma immagino che non sia il caso adesso di stare a considerare quelle che in fondo sono solo sottigliezze, come l’oppurtunità di ordinare ostriche e champagne alle tre del pomeriggio. Mi sento fiera della mia sfrontatezza, mentre sento le bollicine che mi salgono alla testa e noto gli sguardi perplessi degli altri avventori della piccola brasserie in cui mi sono infilata per compiere il misfatto.

 

Per  sottolineare ulteriormente il mio stato di beatitudine, mi accendo una sigaretta e aspiro volttuose boccate, espirando piccole volute che si sfanno verso l’alto in tremolanti arabeschi azzurrini.

 

A tratti mi assale il dubbio di essere in preda al delirio di onnipotenza, ma catalogo anche questo pensiero come un dettaglio del tutto passibile di essere trascurato.

 

E poi, è il momento di passare a quel punto cruciale, imprescindibile in qualunque corso accelerato di recupero dell’autostima – almeno per quel chi mi riguarda- che viene volgarmente denominato Shopping. Questo termine usurato indica e svilisce al tempo stesso quello che considero uno dei principali momenti di creazione del sé, oggi.

 

Chi voglio essere? Se non lo sono posso almeno sembrarlo: vivamo nella dittatura dell’Immagine, e un motivo ci sarà paure.

 

Chi sono davvero? Cerco quello che mi rappresenta, che diventerà il mio abito: il messaggio in bottiglia che lancio al resto del mondo, a chi saprà o vorrà coglierlo.

 

Preparo la spedizione con cura.

 

Cammino per le strade, e mi stupisco di quanta gente ci sia in giro. Mi sembra di passeggiare per il centro per la prima volta, mi sento un po’ a disagio.

 

Arrivo all’entrata del mio negozio preferito, quello da cui esco sempre carica come un cammello pronto per la traversata del Sahara e anche qui, accidenti, c’è un mucchio di gente. Fingo di non farci caso, entro e dopo aver inspirato a fondo – che è il mio segnale di inzio della battaglia-,  inizio a guardarmi intorno, girando tra le file abiti appesi. Qualcosa cattura la mia attenzione: è un vestito rosso di leggero tulle, sembra un po’ il tutù di una ballerina, con le bretelline inorciate sulla schiena. Decido che fa per me, perché sorride a tutti dicendo: Ehi sono qui!, e perché da piccola volevo fare la ballerina, ovviamente. Agguanto anche una camicia bianca, pronta a rivelare al mondo il mio lato ascetico e quasi purista. Ma per non avvilire la mia passione per il kitsch (una piaga che cerco di arginare ormai da millenni, ma che come una subdola malattia continua a rispuntare quando sembrava ormai definitivamente sconfitta) mi approprio di cintura nera alta una spanna, chiusa da una vistosa fibbia in ottone cesellato a forma di farfalla, terribilmente anni ’80. Debellare le mie pulsioni verso il kitsch è diventata un’impresa disperata da quando sono tornati di moda gli anni ’80. Ormai rassegnata a quest’evidenza, cedo a un top blu elettrico, con la scollatura decorata di paillettes, e mi consolo pensando che forse, nel contesto appropriato, potrebbe apparire addirittura sobrio.

 

Momentaneamente appagata, mi dirigo verso la cassa con un braccio carico delle mie conquiste, mentre con l’altro riesco ad acchiapare in extremis un paio di orecchini che sembrano globi da discoteca e un cerchietto per capelli molto Jackie O..

 

Quando arrivo alla cassa, c’è qualcuno che sta già pagando  e l’attesa a cui mi vedo costretta mi obbliga a qualche secondo di riflessione forzata – nel vero senso della parola-  dai crampi che ormai attanagliano i miei avambracci gravati dal peso delle prede conquistate.

 

Un pensiero improvviso mi attraversa la mente. Non mi interessa adesso dire “ Ehi sono qui” oppure“ Sono la regina della disco-dance”.

 

C’è solo una cosa che devo dire ora. E per dirla ci vuole ben più di qualche vestito.

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