Moda e Schiavitù Moderna

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Siamo nel 2018, eppure la schiavitù esiste ancora.
E la Moda è una delle cinque industrie che vi fanno maggiormente ricorso.

Tre storie, ultimamente, mi hanno colpito e mi hanno spinto ad affrontare ancora questo tema scomodo, del quale non parleremo mai abbastanza.

I numeri della schiavitù

servizio fotografico tema schiavi

La prima è la pubblicazione, la scorsa estate, del Global Slavery Index 2018.

Il report racconta un sacco di cose interessanti, e mette in evidenza il ruolo di primo piano giocato dal Fashion nel mercato della schiavitù contemporanea.

Cinque anni  fa, il crollo del Rana Plaza ha drammaticamente acceso i riflettori sulle infime condizioni di lavoro cui sono costretti i lavoratori del settore tessile in tanti paesi del Sud-Est asiatico (ma non solo). Da lì, ha preso il via il movimento #FashionRevolution, che è un inizio, ma non basta.

Perché, come se non bastasse, nel settore dell’abbigliamento, la maggior parte degli schiavi contemporanei sono donne.
In pratica: le donne della metà più sfortunata del mondo sono costrette a lavorare per salari miseri, in condizioni inumane, per consentire alle donne dell’altra metà del mondo di comprare abiti alla moda e a basso costo.

L’inchiesta del New York Times sul lavoro nero

un bambino sorregge un ombrello per una donna fashion

La seconda storia che mi ha fatto riflettere è quella pubblicata dal New York Times durante l’ultima Milan Fashion Week.
Aldilà del tempismo discutibile, il magazine americano ha raccontato di un fenomeno tipicamente Italiano che nel settore Moda conoscono tutti molto bene. Si tratta del lavoro casalingo.

In pratica, laboratori e piccole aziende (che in molti casi producono per grandi marchi) affidano a “collaboratrici esterne” alcune fasi della produzione.
Si tratta per lo più di lavorazioni complesse, che richiedono un sacco di tempo e competenze specifiche: un esempio tipico sono i ricami sugli abiti da sposa, ma diciamo che la pratica è diffusa per vari tipi di decorazioni e finiture.
Lo scandalo scoperto dagli americani (e che a noi, da Italiani, invece non sorprende più di tanto) è che queste “collaboratici esterne” sono spesso la sciura maria, che ricama mentre tiene d’occhio i figli, o la peperonata sui fornelli, e lavora per pochi spicci senza nessuna assicurazione.

Com’è prevedibile, le grandi aziende tirate in causa dal giornale fanno finta di cadere dal pero.
Ma la verità è che questo tipo di lavoro è vantaggioso per tutti.
Per i grandi brand, che esternalizzano la produzione e fanno ricadere sui terzisti l’onere di controllare le condizioni di lavoro.
Per le aziende terziste, che riescono a  offrire il famoso “Made in Italy” senza portarsi in casa i  costi allucinanti legati ad un’assunzione in Italia.
E diciamolo: fa comodo pure alle massaie, che possono arrotondare da casa, per pochi spicci sì ma in nero, senza quindi pagare le tasse ma soprattutto senza risultare titolari di un reddito (e quindi, senza perdere il diritto a eventuali indennità di disoccupazione, sussidi o quant’altro).

Purtroppo, il rovescio della medaglia è che in questo modo le sciure marie non hanno alcun diritto.
Non hanno voce in capitolo, e questo rende possibili ricatti e vessazioni.
Per dire: la schiavitù esiste, nel 2018, e non solo nei paesi del terzo mondo.
Esiste in Italia, a pochi chilometri da noi, magari lavora come schiava anche la nostra vicina di casa.

Il libro-denuncia di Giulia Menestrieri

Ultima ma non meno importante storia di questa trilogia è la pubblicazione di un libro “Il più bel lavoro del Mondo“.

Scritto dall’italiana Giulia Menestrieri, ma pubblicato per ora solo in Francia, il saggio racconta di un’altra  cosa che nel fashion system sanno tutti, ma che nessuno dice.
Ossia che, questo settore è strapieno di lavori malpagati, oppure non pagati per nulla.
E non solo nel terzo mondo.

Certo, è una banale legge di mercato: tanta offerta+poca domanda=crollo dei prezzi.
È ovvio che se un settore è molto ambito, chi offre lavoro possa pescare da un bacino infinito di candidati, e giocare al ribasso sullo stipendio.

E così succede che a Milano, a Parigi, a Londra, lo stage non retribuito sia una costante.
Innumerevoli redazioni , uffici stampa e uffici stile campano proprio su questo.
Lo stagista se ne va, stanco di non vedere un soldo? Pazienza, avanti un altro, tanto fuori dalla porta c’è la fila.

donna in sari e bambino

L’altro grande classico è il lavoro “in cambio di visibilità”, oppure in cambio merce.
“Dai, scrivi per noi: non abbiamo budget, ma almeno ti fai conoscere”.
Oppure “Facci lo styling del lookbook: puoi scegliere due maglioni perché purtroppo non c’è budget”.

L’esempio clou riportato nel libro della Menestrieri è la stylist con le ballerine di Chanel.
Ma che non ha i soldi per pagarsi una stanza. O per mangiare in un posto diverso da McDonalds.
Perché nonostante venga fatta volare in business per raggiungere le modelle sui vari set,  viene pagata in “cambio merce” (se va bene) piuttosto che con un bel bonifico.

Ecco, paragonare questi fenomeni alla schiavitù di cui sopra è sicuramente azzardato.
E non voglio assolutamente mettere le cose sullo stesso piano.
Eppure, lasciatemelo dire, io un filo comune io lo vedo.

Perché si tratta di pratiche vergognose e immorali.
Soprattutto se si pensa ai fatturati e ai margini altissimi di questo settore.

Io sono felice che di tutto questo si cominci a parlare.
E prendere coscienza dei problemi è il primo passo per risolverli.

 

Le foto inserite in questo post sono di Amna Aqeel.
Quella di copertina è tratta dal reality show scandinavo SweatShop,
che ha portato tre fashion blogger norvegesi nelle fabbriche tessili della Cambogia

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