L’inclusività è di moda

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Inclusività: segnatevi questa parola, perché ne sentirete parlare parecchio.
Nella moda, in questo momento, inclusivity is the new black.

E non è una cosa da poco: è una specie di rivoluzione copernicana per un business che, da sempre, ha basato sull’esclusività gran parte del suo fascino.

La moda esclusiva

Storicamente infatti la moda è esclusiva in senso letterale: fino agli inizi del XX secolo, la gente comune era semplicemente esclusa.

I cambi d’abito, i vestiti à la mode, erano appannaggio dell’aristocrazia, dell’alta borghesia e poco altro. La stragrande maggioranza delle persone aveva qualche abito quotidiano e un vestito buono per la domenica, punto.

Nella seconda metà del ‘900, il crescente benessere rende gli abiti sempre più accessibili, ma la Moda con la emme maiuscola non perde quella sua allure irraggiungibile, che ancora oggi si respira nelle boutique dei grandi marchi.

L'atelier haute couture di chanel

A Parigi, negli atelier dei grandi sarti si vestono teste coronate e membri del jet set di mezzo mondo. In Italia, ad organizzare le prime sfilate è l’aristocratico Giovan Battista Giorgini. E moltissimi dei marchi presentati in quegli anni sono di nobili origini, in senso letterale. L’atelier Carosa è della Principessa Caracciolo, l’atelier Simonetta appartiene all’omonima duchessa Colonna Visconti, Emilio Pucci è il rampollo di una nobile casata fiorentina, mentre il maglificio Mirsa è della marchesa Olga de Gresy. La nascita della moda italiana e l’aristocrazia sono legate a doppio filo.

Insomma, la Moda per tantissimo tempo è stata appannaggio degli happy few.
E proprio per questo risultava appetibile
: possedere una giacca Chanel, una borsa Gucci o dei foulard di Hermès voleva dire – almeno per qualche momento – sentirsi parte di un ristretto circolo di privilegiati.

Dalla moda top-down alla moda bottom-up

Oggi però le cose sono radicalmente cambiate.

La rivoluzione digitale ha scardinato le logiche “top down” su cui l’industria del fashion si era sempre basata.

Cosa vuol dire? Semplice. Prima dell’avvento del digital, la Moda (e la comunicazione relativa) veniva letteralmente calata dall’alto. Dagli stilisti, dalla stampa di settore, dai fashion editor e dai trend-setter.

I comuni mortali potevano comprare le riviste patinate, seguire le tendenze di stagione, vedere le campagne stampa, ma in fondo, non avevano nessuna voce in capitolo.

delle influencer guardano il telefono durante una sfilata

Poi, negli anni 2000, è arrivato Internet. E d’un tratto, tutto è cambiato.
Improvvisamente, è successa una cosa impensabile: le persone potevano dire la loro  – e anche criticare apertamente – quello che vedevano.

Quel vestito è orrendo.
Quella modella è troppo magra.
Questa campagna stampa non ci piace.


Le case di moda ne sono state terrorizzate.
Per anni, hanno finto di ignorare l’esistenza dell’online, fino a che non è stato più possibile negare l’evidenza.

Non è un caso se tutti marchi del lusso hanno esitato parecchio prima di lanciarsi sul web (e poi sui social). Nessuno di loro era pronto ad affrontare una discussione con i propri fan “da pari a pari”. Gli innumerevoli “social media fail” che hanno costellato l’ultimo decennio ci hanno mostrato quanti tentativi ed errori ci siano voluti (e ci vogliano tutt’ora)  perché i marchi della moda trovino la loro dimensione digitale.

Ormai però è passato un decennio dallo sbarco dei primi brand sul web. E qualche marchio sta cominciando a sfruttare queste nuove dinamiche bidirezionali a proprio vantaggio.

Un bell’articolo di TFL ha sottolineato come la moda abbia rinunciato, nelle ultime stagioni, ad essere aspirazionale, e abbia cominciato ad adottare una logica bottom-up. In parole povere: ad ascoltare i propri consumatori, e a dare loro quello che desiderano. L’articolo in questione parlava soprattutto di prodotto, e portava l’esempio delle sneakers. Ma nella comunicazione le cose non sono poi così diverse.

L’era dell’inclusività

modelle di diverse etnicità

Oggi, a dispetto dei prezzi proibitivi, per i marchi di Moda mostrarsi inclusivi è un must.

Essere snob non è più cool da un pezzo. Far posto alla diversità (in termini di colore della pelle, di età, di background) sembra la ricetta magica per avere successo nel terzo millennio.

Ne è sicuro Marco Bizzarri, amministratore delegato di Gucci e artefice del recente, incredibile rilancio del brand. Non c’è intervista in cui il super manager non sottolinei quanto l’inclusività sia alla base di moltissime scelte del brand: da quella di coinvolgere cinque giovanissimi nell’ufficio dello stesso Bizzarri al redesign dei negozi, che non sono più progettati per mettere in vetrina il prodotto, ma per farlo avvicinare ai clienti. E comunque, dalle parole ai fatti: cosa c’è di più inclusivo dell’appropriarsi pure delle borse tarocche e collaborare con Dapper Dan, com’è successo da Guccy?

una borsa firmata GUCCY

Intanto, il vento dell’inclusività soffia anche sulle passerelle.
I casting si adeguano ai tempi che corrono, portando sui catwalk modelle di forme, età ed etnicità diverse, per rispecchiare con maggior fedeltà il mondo che ci circonda.
Le sfilate SS2019, lo scorso Settembre, sono state quelle con la maggiore varietà etnica di sempre, con oltre il 36% di modelle non caucasiche: solo tre anni fa, la percentuale era di appena il 17%.

Pure i testimonial scelti per rappresentare i brand sempre più spesso sono “non convenzionali”. C’è posto per le curvy, per le it-girl agée come Iris Apfel, Carmen dell’Orefice e Lauren Hutton, per il viso inconfondibile di Winnie Harlow – famosa per la sua vitiligine – fino a Madeline Stuart che lo scorso Settembre è stata la prima modella con sindrome di down a sfilare alla NYFW.

Intanto il fast fashion non sta a guardare. Asos già da tempo ha smesso di rimuovere con photoshop le smagliature dai corpi delle modelle, e ha cominciato a mostrare lo stesso abito indossato da persone di taglia diversa. 
Sullo stesso sito, compare anche in vendita una linea di capi fashion (anzi, “da festival”) adattati alle esigenze dei portatori di disabilità.

Una modella plus size

Chi si ostina a scegliere solo modelli di bellezza tradizionali non ha vita facile. Le recenti difficoltà di Victoria’s Secret – di cui avevo parlato qui – ne sono un esempio eclatante.

L’inclusività oggi è decisamente IN.

E non credo sia un caso che questa istanza sia diventata popolare in un momento in cui – in Italia e nel Mondo – la discriminazione, il populismo e la paura del diverso sono temi di scottante attualità.

La Moda sembra farci vedere che accogliere tutti è possibile.
Io spero tanto che abbia ragione.

un gruppo di modelli di diverse etnicità posano per una foto di moda

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