Il prezzo del low-cost

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È facile (e giusto) indignarsi quando succedono tragedie come quella di Prato, dove sette operai sono morti ieri nel rogo della fabbrica-dormitorio che li ospitava.

Però, per coerenza, vi chiedo una cortesia: non dispiacetevi per i cinesi di Prato (o per il crollo di una fabbrica in Bangladesh) se poi pretendete di pagare un maglione 39 Euro, o vi rifate il guardaroba da Zara a ogni cambio di stagione.

Perché la moda low-cost non c’è altro modo di farla che così.

O si delocalizza in estremo oriente, in fabbriche che Prato in confronto era l’atelier di Azzedine Alaia, oppure si ricorre a terzisti che non vanno troppo per il sottile, e pur di garantire il prezzo più basso sono pronti a importare manodopera clandestina e a impiegarla in condizioni precarie.china sweatshop0

Sarebbe anche bello se i media smettessero di puntare il dito contro “i cinesi” come se il problema fosse roba loro e noi fossimo invece dei modelli di virtù.

Innanzitutto, di sweatshop analoghi, per mancata sicurezza e inesistenti diritti dei lavoratori, ne esistono anche di tutti italiani.

E poi, queste fabbriche “cinesi” lavorano come terzisti per marchi del Bel Paese, i quali possono così fregiarsi dell’etichetta Made in Italy e abbattere al contempo  i costi di produzione.

Di questo fenomeno ha parlato diffusamente la trasmissione Report, ormai diversi anni fa.
A menon sembra sia cambiato molto, da allora.

Forse perché, alla fine, un maglione a 39 Euro fa comodo a tutti.

Questo articolo ha 8 commenti

  1. D’accordo su tutta la linea!
    E in queste fabbriche non vengono prodotti solo capi low cost ma anche le collezioni di moltissime grandi firme.
    Mi permetto di suggerire un libro che apre un po’ gli occhi su questo argomento: Made in Italy Il lato oscuro della moda di Giò Rosi, edito da Anteprima.
    Ciao:)

  2. Elisa

    Grazie della dritta me lo procurerò senz’altro 🙂

  3. elena

    Il punto in realtà è proprio quello sollevato da the slowcatwalk: non è che se noi anziché 39 euro ne spendiamo 239 siamo sicuri che i lavoratori che lo hanno prodotto siano stati trattati/pagati adeguatamente!
    Come giustamente ricorda in queste fabbriche disumane vengono anche prodotti capi di alta gamma (vi ricordo a tal proposito anche il vecchio ma sempre valido “gomorra” di saviano).
    Tutto ciò per dire che non è il low cost in sè da demonizzare ma queste pratiche che sono trasversali tra low e premium.
    Come fare quindi per acquistare in modo consapevole se il prezzo non è la discriminante corretta???

    1. Elisa

      Hai ragione Elena, il mio titolo è una provocazione, ma è riduttivo.

      Diciamo che nel low cost hai la certezza che i lavoratori sono stati sfruttati, mentre se compri brand “alti” rimane solo una possibilià.

      Una soluzione preconfezionta non esiste, mi spiace dirlo ma i vari marchi di moda solidale sono belli, sono simpatici ma a livello di gusto hanno molta strada da fare. La via d’uscita alternativa è una, e si chiama usare la testa.

      Un jeans che costa 200 euro, una teshirt che ne costa 150 a prescindere dal brand che li propone sono una follia, tanto quanto un capospalla che ne costa 39.

      Le etichette con le composizioni e il made in sono obbligatorie da quasi 40 anni. E già quelle ti possono dare un’idea abbastanza precisa della qualità del capo. Poi sicuramente non sarebbe male se ci fosse un pizzico di cultura in più, e se la gente cominciasse a valutare quel che indossa in maniera obiettiva, al dilà del nome che i capi hanno cucito sopra. Riconoscere la qualità è un esercizio, ma non è poi così difficile, dopotutto.

      Qualcosa di questo tipo sta succedendo col cibo: la gente sempre più spesso vuole sapere da dove viene e com’è stato prodotto ciò che mangia. Spero che succeda anche con i vestiti, in futuro.

      E per chiudere con una nota di ottimismo, dico che ci sono comunque tanti piccoli marchi fanno il loro lavoro con amore, e propongono buona qualità al giusto prezzo. Basta allontanarsi dalle grandi catene e cercare un minimo, usando la testa. Per non parlare del fenomeno dell’autoproduzione, del riciclo e del neo-artigianato, a cui magari una volta dedicherò un post ad hoc. 🙂

  4. Federico

    Anch’io apprezzo le tue parole, aggiungerei che non c’è tutela del made in Italy finchè non c’è tutela dei lavoratori che lo realizzano.
    Inutile battersi a livello comunitario se poi nemmeno a livello domestico non si riesce a far rispettare le regole che si vorrebbe imporre…

    1. Elisa

      Ma che senso ha tutelare il made in italy se poi i primi a NON tutelarlo (ricorrendo a terzisti eccetera eccetera) sono i marchi che lo propongono? Se il Made in Italy lo possono fare pure i cinesi che vivono in batteria come i polli, purchè si trovino in territorio italiano? Con tutto il rispetto per i cinesi eh? Ma Made in Italy, per come s’intende è sinonimo di alto artigianato italiano, ed oggi questo alto artigianato è andato serenamente a farsi benedire.

      Oggi che qualcosa sia fatto in italia non è di per sè una garanzia di qualità – spiace dirlo, ma è così.

  5. Ghostbox

    Completamente d’accordo su tutto. E’ un articolo perfettamente in linea con quello che ho scritto commentando un post dal blog di Federico Esposito, dove ti ho “trovata”. Ti seguirò. Buona giornata!

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